giovedì 27 aprile 2017

Click Click - Those Nervous Surgeons, Recensione






Click Click - Those Nervous Surgeons

 

Valutazione: 4½ su 5

 
I click click sono una band sconosciuta oggi, poco più che negli 80, quando è stata fondata. Purtroppo è rimasta sconosciuta anche tra i palati raffinati dell’underground, dove imperversava l’industrial degli Skinny Puppy, degli Einsturzende Neubauten e dei Coil, dovutamente al fatto che, a differenza dei loro commilitoni più noti, non abbiano sfruttato l’onda di nascita dell’industrial e non abbiano tirato fuori tracce che alla brutalità unissero la melodia (cosa che invece a Front Line Assembly e a KMFDM ha portato un discreto successo, almeno nell’underground), ma si sono limitati a macinare, incastrare e raffinare solo i suoni che volevano, nell’esatto momento in cui intendevano farlo, incondizionatamente. Perciò, dopo tre album principali (e qualche lavoro secondario) che sono passati piuttosto inosservati (fatta forse eccezione per Rorschac Testing, che ironicamente è forse anche il più scarno, ma almeno il più orecchiabile), si sono sciolti e sono finiti nel dimenticatoio. Quindi purtroppo non molte persone (amanti dell’industrial o non) hanno avuto in passato o hanno oggi il piacere di poter ascoltare la magnifica suite meccanica di Skripglow, non perché sia irreperibile, ma perché nessuno la conosce, e nel mondo della musica, purtroppo, funzionano e impattano più il passa-parola e la pubblicità che il valore artistico. Dopo anni di rottura e piccoli lavoretti sporadici, sono tornati nel 2014 con Those Nervous Surgeons. Qualcuno davvero aspettava con ansia un nuovo album dei Click Click? Beh magari qualcuno sì, ma di certo nessuno avrebbe potuto pensare che sarebbe stato un lavoro anche solo minimamente ai livelli di opere magistrali come party hate o bent massive. Invece lo è egregiamente. I Click Click non hanno mai avuto un’epoca di splendore, ma per lo meno i loro surreali e psichedelici suoni meccanicamente cupi potevano avere una buona locazione nell’underground anni 80. Oggi tali suoni potrebbero essere ritrovati al massimo come manufatti di un’antica civiltà ormai estinta. Il ricordo di tale civiltà al giorno d’oggi può essere solamente perpetrato tramite il ricordo di qualche vecchio alternativo, oggi nostalgico; oppure, in alternativa, qualche archeologo novizio potrebbe esplorare gli ormai freddi e desolati corridoi di spettacolari edifici architettonici, riuscendo solo lontanamente a immaginare, con uno sforzo della fantasia, quanto un tempo quelle opere possano essere state immensamente splendenti e ricche di vitalità.
Eppure la civiltà che abitava quelle rovine non è stata del tutto spazzata via da una traslazione di moda e costumi accompagnata da una modernità sempre più stucchevole, e i Click Click ce lo dimostrano.

Fin dalla copertina, Those Nervous Surgeons vuole dare già l’idea di uno strano e non facile album di nicchia: in uno pseudo fumetto, un chirurgo tenta eseguire quella che è forse la sua prima operazione, rallentato da un’ansia da prestazione, tipica di un principiante. Come finirà l’operazione? Non si sa, nemmeno dopo aver ascoltato l’album. Ma forse questa incertezza sul risultato è da traslarsi metaforicamente come l’incertezza di un ascoltatore che si imbatte nel nuovo album dei Click Click; perciò l’unica cosa che ha senso fare è aspettare che i Click aprano l’addome dell’ormai vecchia e malandata musica industriale e vedere se l’operazione avrà successo.

Those Nervous Surgeons si apre con Passenger: una intro (o forse no, dato che dura ben 4 minuti e 40 secondi) dark ambient sorretta da un’oscura melodia che già presagisce quale sarà l’atmosfera dell’album. Questa prima traccia serve già da spartiacque: l’amante del dark si ritroverà inevitabilmente attratto dalla traccia, mentre il disattento e/o occasionale ascoltatore di musica leggera avrà già compreso quanto non faccia per lui. Finita Passenger si apre di getto Man In a Suit, con batteria e basso che senza preavviso sparano un accattivante ritmo incalzante, che travolge, come un aratro, la misteriosa bruma depositatasi sul campo durante la traccia precedente. Subito ci si può accorgere di quanto i suoni siano inaspettatamente moderni e freschi. La voce di Adrian Smith si inserisce improvvisamente in modo prepotente e letale, ma sinuoso e assolutamente piacevole, magnifica, sorreggendo la musica non disgregandola. Con questa traccia (la prima completa) i Click Click mettono subito in chiaro le cose: vogliono riaffermarsi mantenendo il loro vecchio stile e il loro charme, ma lo vogliono fare in modo originale, innovativo e moderno, riuscendo imprescindibilmente a stupire e incantare i fan di vecchia data, come i nuovi arrivati; senza però contaminarsi sfoggiando ridicole ghirlande di esagerata modernità (espediente al giorno d’oggi orribilmente usato da centinaia di band di vecchia data), che li renderebbero, alle orecchie degli ascoltatori, dei vecchi che insultandosi giocano a video games di ultima generazione come ragazzini: uno spettacolo carico in egual modo di comicità e compassione, ossia patetico.

Dopodiché c’è Lock Them Up: una delle canzoni più riuscite dell’album. Una strega stupenda e fatale muove sinuosamente le mani nell’aria nella sua buia grotta, compiendo gesti arcani ma incantevoli, mentre ; dalle sue dita scaturiscono colorate scie che si librano nell’aria per poi svanire. Così meravigliosamente Lock Them Up libera un irresistibile ritmo trip-hop psichedelico che invade l’ascoltatore di autentico piacere. Le tastiere prendono poi il compito di manager, governando la canzone con la loro misteriosa (e sempre accattivante) melodia. La cadenza è funebre. Più si ascolta la traccia e più sembra di sprofondare in oscuri abisi infernali, senza possibilità di fuga. La struttura non è propriamente tipica: vi è una strofa e poi vi è quello che potrebbe essere un altamente melodico (i Click Click stupiscono sempre più ogni secondo che passa) ritornello, il quale chiude perfettamente un cerchio musicale, fornendo più da ponte e da condimento, che come portata principale all’interno del buffet offerto interamente dalla canzone.

Rats In My Bed (Version) è una nuova versione di una loro omonima traccia che era apparsa su qualche altro recente ep. In confronto a come appare altrove, questa “Version” è molto più potente e musicalmente ricca che nelle altre versioni. E’ quasi acida, rumorosa e molto rapida: un puro industrial rock, ma altamente raffinato. I suoni risultano perfettamente stratificati e concatenati tra loro, a partire dalla batteria che suona imperterrita come una mitragliatrice silenziata, fino alle epiche quanto misteriose tastiere, fino alla riverberata voce di Smith, sempre stupenda. Dopo la paradisiaca Lock Them Up, qualsiasi cosa sarebbe stato scadente. Invece Rats In My Bed è come se risvegliasse l’ascoltatore dal sogno, per buttarlo in qualcosa di più pragmatico e brutale, ma non meno intrigante.

Con Factory le impetuose acque scure scatenatesi con Rats In My Bed, si placano un po’, pur rimanendo sempre e comunque nere come la pece. La viscosità di questo liquido nero che lentamente ingloba tutto, è disarmante, e in Factory si percepisce ancor di più il suo peso. La traccia musicale suona come un ambient/drone. Nellae nere acque viscose si intravedono delle mostruosità che a fatica si trascinano attraverso questo liquido, venendo un po’ trasportate ogni volta. Così Factory sforna macabre sonorità che cercano un po’ di uscire dal monotono drone che le avvolge, un po’ spiccando, un po’ lasciandosi trasportare dal fluido e impacciato movimento. La voce di Smith suona in sottofondo come un lamento senza speranza. L’ascoltatore non può fare altro che lasciarsi trasportare.

Factory si affievolisce per lasciare spazio a un altro macigno dell’album: What Do You Want. Una grancassa distorta apre la canzone, suonando pesante in uno spazio vuoto. Sempre più suoni meccanici da industria si aggiungono alla stratificazione, fino a che tutto non si dirada, lasciando spazio a una melodia irresistibile, mentre Smith canta “What do you want? what do you need? What have you learned? What have you seen?” urlando in modo volutamente harsh, sempre riecheggiando; come se Smith stesse, in preda a schizofrenia, urlando verso qualcosa o qualcuno che solo lui riesce a vedere, nella sua solitudine. Una canzone complotti sta molto orecchiabile quanto complessa, che sembra prima voler abbracciare l’ascoltatore, per poi pugnalarlo alle spalle mano a mano che nuovi, freschi e accattivanti suoni si aggiungono. Tutto è curato al dettaglio: i suoni entrano ed escono, passano e copulano in modo rapido ma intenso; se ne vanno soddisfatti pur mantenendo un aroma di vergine impresso. In questo magnifico mosaico, nessun elemento lascia l’ascoltatore a bocca asciutta, proprio come nulla lo affoga. Non appena il mantra “All seeying eye feed us with your light…” si apre, l’ascoltatore cade inesorabilmente in una psichedelica spirale recessiva e qui la realtà è frammista al delirio. Come se Smith riuscisse cantando a trascinare il pubblico nella sua follia schizofrenica. Il cantante però sembra esserci per lo meno abituato mentre lo spettatore si ritrova in un naufragio che termina, alla fine della canzone, con un disperato arrivo, ormai praticamente privo di sensi, su una spiaggia deserta.

Tutto in questo album suona pesante, cupo e letale, come se presagisse qualche fine incombente, trascinando l’ascoltatore nelle profondità di una viscosa melma nera che sembra avvolgere, in modo minaccioso ma piacevole, l’animo dell’ascoltatore.
Le altre tracce non aggiungono nulla all’album, ma si limitano continuamente a condire l’atmosfera già oltremodo cupa che regna, che si conclude perfettamente con la finale, epica, mostruosa e funebre Keep Us out of the Way.
La matassa di Those Nervous Surgeons si dipana piacevolmente in modo leggiadro ma deciso, composto ma genialmente sregolato, oscuro ma avvolgente, sensuale e confortevole ma mostruoso e buio. Il chirurgo ha perciò concluso con successo l’operazione, dimostrando di essere un professionista, nonostante l’insicurezza iniziale.
In definitiva Those Nervous Surgeons appare un po’ come un manufatto realizzato da una tribù di indiani d’America: un lavoro sofisticato, elaborato e ricco: inutile dire che sia perfettamente riuscito, dal momento che trasudi arte e arcano da ogni ghirigoro, ma è realizzato da individui che ormai non sono altro che dei leggendari residui di un antica civiltà e ne sono fieri.

                                                                                                         - Niccolò

Nessun commento:

Posta un commento